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IL RIVOLUZIONARIO PONTE RISORGIMENTO

16 febbraio 2017
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All’indomani dello scandalo della Banca Romana, negli anni della giunta Nathan e dell'Esposizione Internazionale, si costruisce l'avveniristico Ponte Risorgimento. di cui parlò con stupore tutto il mondo

Quando la mattina dell’11 maggio 1911 il Corteo Reale si apprestò ad attraversare per la prima volta il nuovo Ponte Risorgimento, il clima festoso, che sino a quel momento aveva accompagnato la parata, di colpo svanì. Improvvisamente i volti di tutti, compreso quello di Vittorio Emanuele, si fecero più tesi e nervosi, malgrado i sorrisi di circostanza sfoggiati appositamente per la stampa che era lì per immortalare l’evento. Del resto, erano ormai diverse settimane che la costruzione era al centro di illazioni e gli esperti avevano istillato molti dubbi sulla sua effettiva stabilità: come avrebbe potuto tenersi in piedi un arco tanto grande? Nessuno aveva una risposta, anche perché non era mai stato costruito nulla di lontanamente simile prima di allora.

Oggi, a più di un secolo di distanza, quel ponte è ancora lì; il traffico frettoloso tra viale Mazzini e viale delle Belle Arti lo intasa ogni giorno incurante della sua storia e del fatto che un tempo era considerato il più avveniristico e ardito al mondo.

Agli inizi del Novecento, Roma era sprofondata nel baratro. Nulla a che vedere con gli scandali recenti, allora la città fu squassata da un vero e proprio terremoto finanziario. Tutto avvenne in pochi anni. Divenuta capitale del Regno alla fine del secolo precedente, la città si trasformò rapidamente in un enorme cantiere, così che molti intravidero nell’edilizia una facile possibilità per affari d’oro. Ovviamente le banche erano ben contente di finanziare quello che sembrava un mercato inesauribile ma, d’un tratto, ci si trovò a fare i conti con un’inattesa crisi del settore immobiliare. Di fronte alle difficoltà, Bernardo Tanlongo, il presidente della Banca Romana, uno degli istituiti allora abilitati all’emissione della moneta corrente, ebbe un’idea semplicissima: stamparsi i soldi necessari a ripianare i debiti. Una trovata piuttosto ingenua, ma che per diversi mesi funzionò. La banca emise infatti nuove banconote — per un valore pari a venticinque milioni di lire — in sostituzione di altrettante usurate, limitandosi semplicemente a non ritirare dal mercato le vecchie. Il risultato fu che la liquidità raddoppiò di punto in bianco, riuscendo così a coprire i pesanti debiti contratti. Quando però la truffa venne inevitabilmente smascherata, lo scandalo non solo trascinò a fondo Tanlongo e la sua banca, ma anche il ministro del Tesoro Giolitti, provocando il collasso definitivo dell’economia romana.

IL SINDACO BRITISH

Con la vecchia classe politica responsabile di quel disastro e la città sull’orlo del fallimento, fu nominato un nuovo primo cittadino: Ernesto Nathan. Di origini inglesi, convinto anticlericale, massone e repubblicano, Nathan era il primo sindaco da trentasette anni a quella parte a non essere scelto tra gli esponenti dell’aristocrazia cittadina e per questo estraneo agli interessi immobiliari delle grandi famiglie romane. Le priorità erano — si fa per dire — solo due: evitare la bancarotta e rimettere in moto l’economia, scongiurando possibilmente il rischio che qualcosa di simile potesse ripetersi. Nathan adottò provvedimenti inediti a partire da un drastico taglio alle spese comunali (celebre fu il suo “nun c’è trippa pe’ gatti”, che pose fine all’usanza di dar da mangiare ai randagi) e da misure ben più corpose che riguardarono un po’ tutta l’amministrazione. Inoltre, dopo un referendum — l’unico a tutt’oggi mai fatto tra gli abitanti della capitale — fu stabilita la municipalizzazione dei servizi elettrici, idrici e tranviari. Grazie anche all’opera instancabile dell’assessore Montemartini, Roma sottrasse così al lucroso controllo dei privati alcuni dei servizi strategici per lo sviluppo della città.

Eppure, in quel momento il provvedimento più urgente era quello che ponesse un freno all’avidità e al controllo degli speculatori. Per fare questo, tuttavia, il sindaco non scelse di rinunciare a nuovi, e talvolta ambiziosi progetti, ma preferì piuttosto regolamentarne lo sviluppo. Il nuovo Piano Regolatore, quello del 1908 redatto da Edmondo Sanjust di Teulada, fu quindi il primo, imprescindibile, passo per un’espansione che migliorasse la città, anziché rimpinguare le tasche di pochi possidenti.

AMBIZIONI ROMANE

Assecondando il nuovo piano si decise ad esempio che l’Esposizione Internazionale per i cinquant’anni del regno, prevista nel 1911, avrebbe occupato le zone dell’ex Piazza D’Armi e di villa Cartoni. I siti sorgevano l’uno di fronte all’altro sulle due sponde del Tevere, per questo si decise contestualmente di assemblare un ponte provvisorio in legno che collegasse i due poli espositivi. Qualcuno fece però notare che una costruzione del genere, per quanto notevolmente più economica, avrebbe rappresentato un pessimo investimento per la città. Il suo costo, pur ridotto, non sarebbe mai stato ammortizzato nei pochi mesi di utilizzo, in più c’era il concreto rischio che le piene del fiume avrebbero potuto danneggiare l’opera, quindi si fece largo un’idea più ambiziosa per un ponte in muratura. Il sindaco Nathan pensò che questo potesse inoltre tramutarsi, al termine dell’esposizione, in un vero e proprio asse per lo sviluppo della città, per questo lo preferì all’ipotesi temporanea.

Nella soddisfazione generale si bandì a quel punto un concorso demandando ai partecipanti l’onere di risolvere tutti gli aspetti tecnici. In effetti, l’ipotesi di un ponte in muratura era certamente ragionevole da parte degli amministratori, ma realizzarlo proprio lì, in quel punto, significava doversi confrontare con non pochi problemi. Un’ampiezza notevolissima e le allora frequenti e tutt’altro che innocue piene del Tevere, oltre alla particolare composizione del suolo, rendevano l’impresa un vero rompicapo per i suoi progettisti.

La scelta cadde sulla proposta arditissima presentata dalla Società G.A. Porcheddu di Torino, anche perché questa si era impegnata, nel malaugurato caso avesse fallito, a “ricostruirlo a spese proprie, provvedendo nel frattempo al collegamento fra le zone espositive con un manufatto provvisorio”. La società e Porcheddu in persona erano però convinti che sarebbero riusciti a costruire quel ponte, del resto erano i concessionari per l’Italia di un nuovo sbalorditivo brevetto proveniente dalla Francia che stava rivoluzionando le costruzioni.

IDEE FRANCESI

All’incirca cinquant’anni prima, in Provenza, un giardiniere di nome Joseph Monier stava cercando di realizzare dei grandi vasi per le sue piante. Un bel giorno osservò che la gabbia di metallo, che aveva usato per modellare quelle forme, si era saldata al cemento conferendogli una grandissima resistenza. Intuì immediatamente che quella scoperta potesse avere un grande potenziale e senza perder tempo la brevettò. Era il 1867 e Monier pensò che sarebbe stata un’ottima idea presentare la sua invenzione all’Esposizione Universale, che quell’anno si sarebbe tenuta a Parigi: l’occasione perfetta per mostrare al mondo questa nuova tecnologia ideale per costruire — a suo dire — serbatoi per l’acqua. Con grande delusione, il vulcanico giardiniere constatò che ben pochi erano però interessati al suo brevetto.

Passarono solo pochi anni e un altro francese, un costruttore, intuì che quella tecnologia, prima ancora che per le cisterne, sarebbe stata utile per costruire abitazioni, e si affrettò quindi a brevettare a sua volta dei solai e dei pilastri in betòn armé. Da allora quel sistema verrà ribattezzato col suo nome: Hennebique. Questa volta il cemento armato, come lo chiamiamo oggi, ebbe un immediato successo, così che lo stesso Hennebique si ritrovò ben presto a capo di una multinazionale con progetti in tutto il mondo e concessionari esclusivi per ciascuna nazione come, appunto, la Società Porcheddu nel nostro paese.

Forte di questo brevetto, il progetto per il nuovo Ponte Risorgimento era qualcosa di rivoluzionario. Un arco molto ribassato con una luce di ben cento metri e uno spessore minimo al punto che, nella parte centrale, la soletta sarebbe stata di appena ottanta centimetri. Un’opera impressionante, che impegnò nella progettazione lo stesso Hennebique al fianco di Porcheddu per quella che sarebbe stata di gran lunga l’opera in cemento armato più ardita mai costruita.

Per dare un’idea, il giorno in cui furono rimosse le centine che sostenevano la volta durante la costruzione, gli operai si tirarono indietro impauriti. Fu Hennebique in persona a salire su una barca posizionandosi, proprio sotto il ponte per dimostrare agli uomini la sua totale fiducia nella sua struttura.

RIVOLUZIONE SUL TEVERE

I giornali di tutto il mondo lo celebrarono come il ponte con la maggior luce mai realizzato e Roma, per la prima volta, saliva agli onori delle cronache per la sua modernità al pari delle altre grandi capitali europee come Parigi, Londra o Vienna. Era proprio ciò che il sindaco Nathan auspicava, un’ottima dimostrazione di come gli anni degli scandali fossero ormai alle spalle.

Realizzarlo però fu tutt’altro che semplice, i problemi furono tanti e spesso inattesi. Il terreno era di pessima qualità, nient’affatto l’ideale ad una costruzione tanto audace. Gli strati superficiali argillosi lasciavano il posto, mano a mano che si scavava, ad un fango limaccioso e instabile che escludeva quindi la possibilità di realizzare dei piloni. La furia delle acque durante le ondate di piena avrebbe richiesto strutture troppo onerose. Si decise dunque di non appoggiarsi da nessuna parte e far compiere alla struttura il salto da una sponda all’altra. Costruire però le “spalle” adatte a sorreggere uno sbalzo simile era altrettanto difficile. Porcheddu e Hennebique idearono, proprio per questo motivo, un innovativo sistema di pali conficcati a distanza ravvicinata nel terreo che, per costipamento, lo avrebbero reso incredibilmente solido. Fu con questa tecnica e una struttura complessivamente leggerissima che riuscirono nell’impresa di realizzare questo ponte.

Le forme che ne scaturirono erano modernissime, troppo per un’epoca, il 1911, in cui il classicismo era ancora ben radicato in una cultura da sempre più abituata a confrontarsi con il passato che con il futuro. Fu per questo che si decise di decorarlo con degli elementi architettonici tradizionali come parapetti e bassorilievi di chiaro stampo ottocentesco. Malgrado questo, ancora oggi, osservando quell’esile struttura e quell’arco elegantissimo, non si può non notare la differente leggerezza che distingue ponte Risorgimento da tutti gli altri.

All’indomani dello scandalo della Banca Romana, un rinnovato clima culturale di stampo europeo proiettò dunque una città sonnolenta, piuttosto provinciale nell’epoca moderna. Gli anni della giunta Nathan, dell’Esposizione Internazionale, del completamento del Monumento a Vittorio Emanuele II e del nuovo Piano Regolatore segnarono un quinquennio in cui Roma sembrò potersi scrollare di dosso tanti problemi che invece, ancora oggi, l’affliggono inesorabilmente. Quel ponte dall’aspetto classico ma in fondo così rivoluzionario era in effetti il simbolo più autentico di quella breve rinascita che aveva visto, nuovamente, il mondo guardare con ammirazione alla Città Eterna.

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(articolo scritto con Danela Tanzj e publicato su La Voce di New York – foto di Flavia Rossi)

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