Questa storia inizia una mattina di primavera del 1960, siamo a Roma e il prato dello Stadio dei Marmi è invaso da un chiassoso manipolo di studenti che sono radunati lì per sfidarsi nella corsa campestre. Si tratta solo dei campionati studenteschi provinciali eppure tutti, quel giorno più del solito, sognano di vincerli.
A spuntarla, con una una determinazione fuori dal comune, è un diciannovenne di Civitavecchia, Giancarlo Peris. Per lui sul podio una coppa e un mazzo di fiori ma soprattutto un onore: far parte della storia.
Di quale storia il mondo intero se ne sarebbe accorto di lì a poco, il successivo 25 agosto, quando, verso le cinque e mezza del pomeriggio, Peris salirà a passo di corsa i novantanove gradini che dal prato dello stadio Olimpico lo condurranno fin sulla sommità degli spalti gremiti. Lì era infatti posizionato il braciere che il ragazzo accenderà avvicinandovi la torcia proveniente da Olimpia che lui, per ultimo, stringeva nella mano destra. Fu cosi che si aprirono i Giochi della XVII Olimpiade dell’era moderna.
L’Olimpico oggi, quando sono ormai trascorsi più di sessant’anni dallo spegnimento di quel braciere, è uno stadio diverso e assai meno suggestivo di allora.
La pista in terra battuta, sulla quale si involò l’occhialuto Berruti, trionfatore nei 200 metri, è stata sostituita da un un più moderno anello in Tartan mentre le colombe, il cui volo incorniciò il vittorioso arrivo del velocista italiano, non si posano più su quel terreno. Colpa della sgraziata copertura aggiunta per i Mondiali di Calcio che oltretutto impedisce ormai di ammirare dalle gradinate la verde maestosità di Monte Mario scivolare verso il campo quasi si trattasse di una tribuna naturale.
Demolito, spogliato dai marmi e poi ricostruito, oggi quello stesso stadio è ormai un’infelice accozzaglia architettonica del tutto estranea alla meraviglia che la circonda a cominciare proprio dall’eleganza ancora oggi intatta dello Stadio dei Marmi.
Le Olimpiadi che Cambiarono il Mondo
Durante le Olimpiadi che Cambiarono il Mondo -come le definì lo scrittore David Maraniss- la monumentalità del Foro Italico era l’epicentro dell’attenzione. A questo fu affiancato, appena dall’altra parte del Tevere, il Villaggio Olimpico che con la sua modernità funzionalistica ne costituiva l’antitetico rovescio architettonico. Divenuto in seguito un quartiere residenziale appare ancora oggi sonnolento e ben distante dal caos della grande metropoli grazie al suo progetto, firmato da Moretti, Libera, Cafiero, Monaco e Luccichenti. Si tratta infatti di uno dei rari esempi riusciti di quell’epoca e se ne intuisce il perché: edifici di soli quattro piani fluttuano sospesi sul verde grazie ai pilotis mentre sotto di essi, di tanto in tanto, si aprono piccole piazze. A completare il paesaggio l’elegante calotta semisferica del Palazzetto dello Sport e il viadotto di Corso Francia che permette alle auto di “sorvolare” senza intralcio il quartiere. Al di sotto, risparmiate dal traffico, sopravvivono invece le stradine alberate e le grandi aiuole ormai tristemente trascurate dove un tempo si faceva fotografare, distesa sul prato, la Venere Nera dei giochi, la statunitense Wilma Rudolph. Di quell’estate rimangono la toponomastica “olimpica” e le quattro sculture bronzee raffiguranti Il Calcio, La Lotta, La Corsa e Il Pugilato, mirabili opere di Amleto Cataldi, che impassibili, tra erbacce e oleandri, celebrano il mito sportivo. Sono ciò che rimane oggi del vecchio Stadio Nazionale -di cui decoravano l’ingrasso- demolito e rimpiazzato dal Flaminio di Nervi anch’esso poi abbandonato lì a poca distanza.
Dove Nacque Cassius Clay
Oggi che Roma aspira ad ospitare nuovamente i Giochi gli impianti di questo quartiere e il vicino Foro Italico sono stati nuovamente proposti come sede di alcune gare. Lo chiamano adesso, ricorrendo ad un’abusata espressione inglese, cluster ad indicare uno dei siti in cui si concentrano parte delle competizioni Un’altro cluster dell’ambiziosa proposta per il 2024 sarà, come nel ’60, l’EUR. Il quartiere, voluto da Mussolini e mai ultimato per via della guerra, venne idealmente completato proprio in occasione delle Olimpiadi. Le competizioni di scherma, ad esempio, si tennero al Palazzo dei Congressi di Libera ma soprattutto in questa zona si costruirono due delle più straordinarie architetture dell’epoca: il Velodromo e il Palazzo dello Sport.
Oggi la volta immensa che Nervi ideò per il palasport, divenuta un simbolo, rivaleggia per dimensioni con quella del Pantheon, “il” capolavoro dell’antichità. Sotto le sue esili nervature le competizioni olimpiche furono memorabili e questo luogo passerà alla storia per aver dato i natali -agonistici, si intende- al più grande sportivo di ogni epoca. Il giovane Cassius Clay infatti conquistò qui il suo primo, grande, successo prendendosi l’oro olimpico. Si trattava proprio di quella stessa medaglia che verrà gettata da Alì nel fiume Ohio per protestare contro la sua Nazione che nel ’75 voleva obbligarlo ad andare in guerra (A proposito, sarebbe giusto oggi commemorare qui lo scomparso campione di Louisville).
Quest’immensa rotonda di calcestruzzo e vetro rappresenta la quinta prospettica che da un lato “conclude” Roma e dall’altro accoglie chi giunge dal mare e ormai gli anni trascorsi ne hanno sublimato, curiosamente, la modernità trasformandola in una presenza metafisica simile a quella che caratterizza il resto del quartiere fascista.
Un Destino Comune
Il Velodromo di Ligini era forse un’architettura addirittura superiore a quella di Nervi eppure oggi, oltre i suoi cancelli troviamo solo un prato. Osservare quel vuoto lungo Viale della Tecnica significa trovarsi di fronte tutte le esasperanti contraddizioni di questa città.
Costruito nel ’60 e definito come “il più bello e il più perfetto del mondo”, dopo aver ospitato le imprese a cinque cerchi, cadde ben presto in disuso, secondo una prassi che, edizione dopo edizione, ha accumunato davvero troppi impianti olimpici in tutti gli angoli del mondo. Nel 2008, tra mille proteste, il Velodromo venne quindi fatto saltare in aria. Alle polemiche seguirono però ben presto le indagini e la speculazione che doveva sorgere in quest’area fu fortunatamente bloccata e così oggi di tutta questa vicenda non rimane che un prato; Incredibilmente questo spazio che potrebbe divenire almeno un apprezzato parco in cui rilassarsi e fare sport, non può essere utilizzato dagli abitanti del quartiere ai quali non rimane che osservarlo, con rabbia, al di là dei cancelli.
Decisioni che Segnarono il Destino di Roma
Tra i due siti, quello a Sud dell’EUR e quello a Nord del Foro Italico, si giocò il futuro di Roma. Sì perché a ben vedere se la Capitale è quella che oggi conosciamo con tutti i suoi difetti molto lo si deve ai cambiamenti indotti da questi due “poli”.
A metà degli anni Cinquanta, quando si presero le decisioni per l’assetto futuro si stabilì che il “cordone ombelicale” che avrebbe unito i due quartieri sarebbe stato un grande semi-anello stradale che abbracciava la città nella zona occidentale. La Via Olimpica, come fu ribattezzata, era in realtà un furbissimo stratagemma per consentire alla Società Generale Immobiliare e al Vaticano, con il prezioso appoggio del famigerato sindaco democristiano Salvatore Rebecchini e del presidente del Comitato Organizzatore Giulio Andreotti, di approfittare dell’improvviso incremento di valore dei loro terreni che casualmente si trovavano tra Vigna Clara e la Magliana passando per l’Aurelia e persino Villa Pamphilii. Del resto il fenomeno, che oggi siamo rassegnati a considerare come ineluttabile, veniva coraggiosamente denunciato per la prima volta proprio in quegli anni (1955) dalla celebre inchiesta di Manlio Cancogni pubblicata su L’Espresso con il titolo emblematico di Capitale Corrotta, Nazione Infetta.
Il tracciato della Via Olimpica, che contraddiceva ogni indicazione presente nel nuovo Piano Regolatore e la contemporanea scelta ideologica di una città in cui gli spostamenti sarebbero avvenuti da lì in avanti solo attraverso la propria automobile, trasformano il 1960 nel crocevia di una storia urbanistica in cui Roma imboccò proprio allora la strada sbagliata, quella in cui siamo tutt’oggi imbottigliati.
Scandali, corruzione e sprechi. Architetture straordinarie e opere rimaste inutilizzate eppure, malgrado tutto ciò, la XVII edizione dei Giochi Olimpici rimase una delle più straordinarie di sempre. Una di quelle che, come -per certi versi- Berlino nel ’36 e successivamente Monaco nel ’72, segneranno uno dei vertici ineguagliati dalle altre edizioni, precedenti e successive.
Del resto non ci sono al mondo scenari migliori di quelli che regalò a spettatori ed atleti la Most Famous City In The World. In tutte le altre trentuno edizioni, compresa quella appena conclusa di Rio de Janeiro, non c’è mai stata una gara di ginnastica come quella del 1960 in cui gli atleti volteggiavano tra le rovine imponenti delle Terme di Caracalla. Nessun palazzetto dello sport, nemmeno il più avveniristico del mondo, potrà poi esser mai paragonato alle volte millenarie della Basilica di Massenzio sotto le quali si affrontarono gli atleti della Lotta Greco-Romana.
Un continuo richiamo dei fasti antichi che tanto sarebbe piaciuto a De Coubertin che, in effetti, avrebbe voluto Roma come sede olimpica già nel 1908.
Una Maratona Mitica
Il culmine di questo crescendo si registrò, come nella più classica delle sceneggiature hollywoodiane, la sera del 10 settembre, l’ultimo giorno, a ridosso dello spegnimento del braciere. Poco più di un paio d’ore prima infatti, sotto lo sguardo severo dei Dioscuri Capitolini, mentre il sole tramontava, aveva preso il via la più importante di tutte le gare: la maratona. Quella sarà un’edizione leggendaria ricordata ancora oggi al pari dell’antica corsa di Filippide. Dopo essersi lasciati alle spalle i secolari Fori Imperiali e il Colosseo gli atleti si diressero verso il mare per poi tornare indietro lungo l’Appia Antica. Quando imboccarono la Regina Viarum la corsa divenne mitologia. Il duo di testa infatti avanzava nelle tenebre sul ciottolato millenario, ai lati della strada fiaccole di fiamma viva costeggiavano il percorso mentre al loro transito, quasi magicamente, si accendevano i riflettori che rivelavano al mondo la bellezza della Città Eterna: la Tomba di Cecilia Metella, la Domine Quo Vadis, Porta San Sebastiano, il Palatino e infine l’Arco di Costantino -che era anche il trionfale traguardo di quei 42 chilometri e 195 metri- si accesero uno dopo l’altro in una scenografica apoteosi del mito classico.
Lì sulla strada invece si assisteva all’impresa di un ventottenne etiope che scalzo, come gli antichi eroi, trionfava davanti a tutti. Con il pettorale numero undici, Abebe Bikila, un soldato della guardia del Negus Hailé Selassié, sbaragliò la concorrenza presentandosi da solo al cospetto del Colosseo. Pochi metri prima, in quello che verrà interpretato come un simbolico riscatto, era transitato ai piedi dell’obelisco di Axum, tesoro di guerra sottratto proprio al popolo etiope dagli invasori italiani e solo recentemente restituito.
Fu l’ultimo, memorabile, atto di quella edizione delle Olimpiadi. L’Italia, uscita con le ossa rotte dalla guerra, dimostrò così al mondo la rinascita che si era compiuta in soli quindici anni; Quella era ormai la città della Dolce Vita e non più Roma Città Aperta.
I tempi sono cambiati. Gli antichi monumenti stanno tutti ancora lì ma al loro cospetto passeggiano ormai solo masse di turisti assediate dal traffico. Roma sembra oggi avvitarsi in una spirale di decadenza che nulla ha a che vedere con quell’estate di oltre mezzo secolo fa in cui stupì tutti divenendo, seppur per pochi anni e per l’ultima volta, una delle città più importanti quando il mondo del cinema, dell’arte e dello sport sembravano darsi appuntamento proprio sulle rive del Tevere. Quell’epoca non solo è finita ma non sembra più replicabile e anche la candidatura per le future Olimpiadi appare fortunatamente velleitaria. Questo è l’aspetto più desolante: ci hanno ormai abituati a credere che un evento simile non potrà più essere un’occasione di rinascita per questa città, non potrà mai essere come quella volta.
(articolo scritto con Danela Tanzj e publicato su La Voce di New York – foto di Flavia Rossi)