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ROMA ETERNA, UNA PALAZZA SOPRA GRA

23 settembre 2023
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Roma, nella sua storia millenaria, è rinata continuamente sulle sue rovine. Anche in via Aldrovandi possiamo ritrovare l’essenza di questa città in cui, come chiosava Giorgio Muratore “nun se butta via niente”

Giulio Gra è un architetto del Novecento. Flashback: All’inizio del cinquecento Baldassarre Peruzzi riceve l’incarico di realizzare all’interno delle dell’antico Teatro di Marcello un nuovo palazzo per la famiglia Orsini. Risultato? Uno degli edifici più affascinanti dell’intero Rinascimento. Non fu un caso isolato: Roma, nella sua storia millenaria, è rinata continuamente sulle sue rovine meritandosi per questo l’appellativo di Città Eterna. Castel Sant’angelo, il Mausoleo di Augusto, piazza Navona o la basilica di Santa Maria degli Angeli sono alcuni degli episodi più straordinari di questo approccio. Analogamente anche in epoca moderna ci sono esempi di questo approccio come la famigerata – e criticatissima – soprelevazione da del villino Alatri di Morpurgo aggiunta da Ridofli e Frankl.

A questo punto occorre una digressione. Una leggenda racconta che GRA non sia solo l’acronimo di Grande Raccordo Anulare ma piuttosto che la circonvallazione stessa sia stata ribattezza così in modo che le iniziali coincidessero con il cognome dell’ingegner Eugenio Gra.
In un’epoca – la nostra – in cui un’acronimo accattivante si trova un po’ per tutto, c’è da ammirare questa trovata risalente agli anni ’50.  Eugenio Gra era infatti un’ingegnere ed era il capo Gabinetto dell’allora ministro dei Lavori Pubblici Giuseppe Romita, colui che darà il là alle moderne autostrade italiane e su tutte alla Route 66 dello stivale, l’A1, l’Autostrada del Sole. Pare che quando si iniziò la costruzione dell’anello stradale attorno alla capitale Gra fosse tra i progettisti dell’opera, eppure su di lui non ci sono altre notizie oltre a questo aneddoto. Siamo dalle parti della mitologia.
Si sa tuttavia, e con certezza, che Gra (Eugenio) avesse dei fratelli, il minore dei quali, Giulio, fu in realtà ancora più celebre di lui avendo legato il suo nome alla progettazione di un discreto numero di lussuose residenze.

Tra queste una in particolare ci interessa in questa sede: villa Caracciolo di Birienza in via Aldovrandi. A suo modo un perfetto esempio del perché questa città viene ancora oggi definita “eterna”. In questo senso nemmeno i Parioli fanno eccezione.  Siamo nel 1911. In occasione dell’Esposizione Internazionale che si tenne quell’anno, una parte significativa degli interventi riguardò l’area compresa tra il viale delle Belle Arti e la villa Cartoni (come allora era chiamata Villa Borghese). In particolare in questa parte di città venne costruita la Galleria Nazionale d’Arte Moderna – ideata da Cesare Bazzani – e il nuovo Zoo.  Fu quindi a partire dagli anni dieci del Novecento che via Ulisse Aldrovandi, la spina dorsale di questa nuova zona, si attestò come una delle più eleganti strade della nuova Roma. Nel 1926 la Duchessa Margherita Caracciolo di Brienza acquistò proprio lì, in cima a quella piccola collina alle spalle della Galleria d’Arte Moderna, un terreno di pregio sul quale edificare la sua nuova dimora romana. La Duchessa incaricò del progetto una delle figure più insolite tra i progettisti che hanno costellato il Novecento: l’ingegnere Giulio Gra. Nato agli albori del secolo infatti, Gra sarebbe stato anagraficamente predisposto ad abbracciare il nascente stile moderno che si sta diffondendo in Europa ma lui no, decise al contrario di guardare altrove. Forte di una formazione assolutamente “romana” e radicata nel passato, Gra sembrava vivere in un mondo in cui il manierismo e la prima età barocca non avessero concluso il loro ciclo come scrisse Alessandro Sartor.
Quando nel ’26 la Duchessa Caracciolo lo incarica, lui le propone un lussuoso palazzetto impreziosito da due monumentali scalinate semicircolari, che incorniciavano una sorta di ninfeo che direttamente dalla strada collegavano al piano nobile. Una scenografia baroccheggiante e non era nemmeno destinata all’ingresso principale giacché questo era posto sul fronte occidentale, affacciato verso viale delle Belle Arti e dotato di una rampa carrabile. Infine i tre piani dell’edificio, erano serviti tutti da un’ascensore: un lusso per l’epoca.

Fin qui la storia di villa Caracciolo. Ma poi con il boom economico degli anni ’60 anche la duchessa si convinse che l’edilizia potesse essere alquanto redditizia. Non ci pensò due volte e allora giù l’augusta residenza di famiglia e largo alla speculazione e alle palazzine. Alessandro de’ Rossi, Fabrizio Baliva ed Ernesto Rampelli poterono progettare lì una nuova palazzina ma, circostanza curiosa, il nuovo edificio non fu innalzato sul terreno bensì “innestato” sul piano terra di quella che era stata la villa di Giulio Gra. L’esito è sorprendente. Una sorta di mitologico minotauro metà villa baroccheggiante e metà palazzina anni ’60. That’s all Falks!  Fu nientemeno che Carlo Aymonino a parlare di questo bizzarro edificio sulle pagine de L’Architettura. Cronache e Storia, rivista diretta da Bruno Zevi. Così. entusiasta, affermava: «nello squallido panorama dell’edilizia speculativa romana fanno spicco alcune “fabbriche” [..] che fanno intravedere come potrebbe essere diversa una città costruita bene inventata con più libertà e fantasia ». Dobbiamo ricordare che siamo nel 1963, in un periodo in cui il valore ideologico e sociale dell’architettura permeava ogni giudizio e così l’abbattimento di un’aristocratica villa rimpiazzata da una più borghese palazzina rappresentava in un certo senso un vittoria. Così Aymonino continua ad elogiare quello che oggi sarebbe l’ennesimo scempio da scongiurare contro cui probabilmente lui stesso sarebbe il primo a innalzare le barricare.
Del resto anche l’etica architettonica, esattamente come l’estetica, muta con il cambiare della cultura di una società e la stratificazione di questo edificio ce lo ricorda. Due scalinate monumentali, un ninfeo e una palazzina anni ’60. Anche in via Aldrovandi possiamo ritrovare l’essenza di questa città in cui, come chiosava Giorgio Muratore, “nun se butta via niente”.

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