Pochi architetti hanno lasciato un segno nella Roma tra le due guerre come ha fatto Innocenzo Sabbatini; per comprenderlo non c’è niente di meglio che andare fino a Macerata.
Figura leggendaria, ormai pienamente – e giustamente – celebrata dalla critica quello di Sabbatini è un profilo tra i più singolari e complessi. Giunto a Roma giovanissimo, nel 1918, grazie all’interessamento – i più maliziosi la definirebbero “raccomandazione” – dello zio materno, Innocenzo Costantini, che gli procura un’incarico al potentissimo Istituto Case Popolari. All’interno di quell’ufficio tecnico Sabbatini costruirà alcuni tra gli edifici più affascinanti del tempo dagli ICP di via Andrea Doria a quelli di via Oslavia, passando per via Marmorata fino ai lotti più iconici della Garbatella. Fu in occasione di quest’ultimo incarico che si consumò la rottura con con l’Ufficio. Sabbatini non accettava che proprio i suoi Alberghi Suburbani venissero trasformati in tradizionali case per appartamenti e così abbandonò l’incarico nel 1931.
Deluso, l’architetto si ritira progressivamente preferendo la privata professione svolta dal proprio studio di via Dandolo. Antifascista e membro del CLN nell’immediato dopoguerra torna ad Osimo, nelle Marche, dove era nato nel lontano 1891.
È qui che si svolge l’ultimo atto del Sabbatini architetto. Quello meno noto e per certi versi più sorprendente. La tragedia della guerra obbliga infatti gli architetti ad elaborare un nuovo linguaggio e lui che, vent’anni prima era stato capace di coniugare la tradizione vernacolare e le suggestioni futuriste, non si fa trovare impreparato.
Ha ormai settant’anni quando alla fine del 1960 riceve l’incarico dalla diocesi di Macerata di realizzare la nuova chiesa intitolata a San Francesco d’Assisi. Lo stile è assimilabile alle coeve esperienze di Quaroni e Ridolfi nell’alveo di quel modernismo storico che varrà tanto celebrato dai postmoderni. Eppure in quest’opera in particolare è evidente l’analogia con lo straordinario San Policarpo che di lì a poco Giuseppe Nicolosi realizzerà al Tuscolano e entrambe devono a loro volta molto alle visionarie “Alpine Architektur” che Bruno Taut immaginò addirittura nel 1919.
Pianta centrale, matrice triangolare di borrominiana memoria e attenzione al particolare che, come avviene per le finestre, sembra richiamare un modernismo sofisticato, di stampo pontiano fanno della chiesa di Macerata una testimonianza oggi imprescindibile.
Gli esiti a cui approda l’anziano Sabbatini, dimostrano infatti, una volta per tutte, il dinamismo che rende l’architetto marchigiano, un’anomalia singolare nell’architettura italiana. Per troppo tempo confuso con un professionista esclusivamente interessato alla rielaborazione dei modelli del passato, Innocenzo Sabbatini dimostra al contrario di essere molto più attento alla contemporaneità di quanto ci è stato raccontato e, osservando quest’edificio, completato alle volgere degli anni ’60, tutto ciò appare ancor più evidente.