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SEGUENDO I SOLDI DIETRO AL WATERGATE

23 maggio 2016
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Il più famoso scandalo della storia ebbe come teatro uno degli edifici più italiani d'America che divenne sinonimo di intrighi e immoralità che fu progettato da Luigi Moretti negli anni '60.

Quel sabato, come ogni notte, l’agente Frank Wills stava facendo noiosamente il suo lavoro, controllava cioè che tutto nel palazzo fosse a posto. Ad un certo punto, con la coda dell’occhio, intravide su una porta un pezzetto di nastro adesivo che impediva alla serratura di chiudersi; Non ci fece troppo caso, l’impresa delle pulizie era solita utilizzarlo e dovevano esserselo dimenticato nel pomeriggio; Lo strappò e proseguì il suo giro. Più tardi passò nuovamente di lì ma stavolta sgranò gli occhi: qualcuno aveva di nuovo bloccato la porta, doveva immediatamente chiamare il 911.  Wills non immaginava certo di aver appena innescato una serie di eventi che porteranno l’uomo più potente del mondo a dimettersi.

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Fu George Washington in persona a stabilire dove sarebbe sorta la nuova capitale del governo federale scegliendo un sito sulla riva settentrionale del fiume Potomac e sarà sempre lui ad incaricare Pierre Charles L’Enfant di progettarne l’impianto urbano. L’architetto, di origine francese, ideò uno schema ibrido, composto da una griglia di strade e da grandiosi viali disposti a raggiera a  congiungere gli edifici più rappresentativi. Uno disegno profondamente razionale, di stampo illuminista, che aveva però nella frastagliata sponda del Potomac un margine assolutamente irregolare. Sarà proprio questa contrapposizione tra natura e ragione umana che, un paio di secoli più tardi, ispirerà Luigi Moretti nel suo più grande progetto fuori dall’Italia.

Sul finire degli anni Cinquanta l’architetto fu infatti incaricato di progettare un vasto complesso immobiliare da costruirsi su un lotto di oltre dieci ettari proprio sulla sponda del fiume. Erano anni difficili quelli per Moretti; Certo il suo talento si manifestò già negli anni Trenta quando, giovanissimo, realizzò a Roma un coppia di edifici rivoluzionari come la GIL di Trastevere e la Casa delle Armi al Foro Italico poi però la guerra, la caduta del regime e soprattutto l’epurazione culturale che ne seguì, sembrarono relegarlo ai margini della scena architettonica. Bollato come “fascista” faticò per molto tempo ad aggiudicarsi incarichi.
Sul finire degli anni Cinquanta però si presentò da lui un certo Aldo Samaritani con la proposta per Washington. Quell’uomo, dall’aspetto distinto, era l’amministratore della Società Generale Immobiliare: una delle più ricche e controverse società del mondo.
Moretti fu subito entusiasta dell’opportunità tanto da mettersi immediatamente a lavoro e, poche settimane più tardi, si presentò nell’ufficio di Samaritani con sotto il braccio non una ma ben due proposte di progetto. Fu Samaritani stesso ad esaminarle minuziosamente e, dopo alcuni minuti di silenziose riflessioni, decretò che si sarebbe realizzata quella “meno americana”. L’idea dell’architetto romano era infatti di distinguersi dal modernismo che in quegli anni era tanto in voga: nessuna scatola di acciaio e vetro ma bensì una sinuosa struttura in cemento che richiamasse gli eleganti Crescent inglesi di Bath. Nelle intenzioni gli edifici dovevano essere infatti monumentali ma al tempo stesso moderni, eleganti e soprattutto non dovevano apparire come meri “contenitori di vita ma piuttosto avrebbero partecipato alla vita che ospitavano al loro interno”.
Samaritani dal canto suo aveva incaricato di sua iniziativa Moretti proprio perché convinto che il suo genio avrebbe dato al nuovo edifico un carattere unico.
Del resto l’Immobiliare si giocava molto con quel progetto. Era il più grande investimento edilizio mai tentato da uno straniero sul suolo americano e lo si stava realizzando in una delle zone più prestigiose della Capitale del Paese. Tutto doveva essere perfetto, c’erano in ballo ottanta milioni di dollari che, all’epoca, erano una somma stratosferica.

Quando i plastici del nuovo complesso furono svelati dallo stesso Moretti a Washington nel corso di una presentazione pubblica, lo stupore fu unanime. Nessuno da quelle parti aveva mai visto niente di simile. Ma dopo appena qualche settimana le prime critiche iniziarono a circolare tra l’opinione pubblica locale. C’era innanzi tutto un’aspetto che l’architetto aveva sottovalutato: l’altezza. Si perché al contrario di come siamo abituati a immaginare le città americane, a Washington è in vigore -sin dal 1910- un particolare regolamento edilizio che limita l’altezza degli edifici. Questa non può superare, se non al massimo di sei metri, la larghezza della sede stradale.
Le polemiche furono aspre da ambo le parti ma alla fine si arrivò ad un compromesso che prevedeva la riduzione di un quarto dell’altezza degli edifici. Insomma quando il sindaco Raggi ha recentemente imposto alla proprietà americana della A.S, Roma di cancellare dal progetto di Tor di Valle i grattacieli non ha fatto altro che pareggiare il conto con questo, illustre, precedente.
Risolto l’aspetto burocratico però ci si trovò di fronte ad una nuova polemica, forse ancora più insidiosa, perché attaccava il nuovo progetto non più sull’aspetto tecnico-architettonico bensì dal punto di vista ideologico.
Promotore della proposta era infatti l’Americans United For Separation of Church and State, un agguerrito gruppo di avvocati che sin dal dopoguerra si impegnava per il rispetto del primo emendamento della Costituzione che stabilisce la totale laicità dello stato americano.
Ma perché questo gruppo di avvocati ce l’aveva proprio col progetto di Moretti? Be’ semplicemente perché la Società Generale Immobiliare proprietaria di quel complesso apparteneva al Vaticano.

La vicenda era antica come l’Italia, L’Immobiliare era infatti nata a Torino nel 1862 all’indomani della proclamazione del Regno e si configurava, da subito, come un’impresa con la vocazione per i grandi progetti, proprio quel genere di lavori che servivano per “costruire” il paese. Si spostò quindi a Roma quando questa divenne Capitale e lì cavalcò la grande febbre edilizia di quegli anni. Il cambiamento decisivo avverrà però con l’11 febbraio 1929. Quel giorno infatti Mussolini e il Cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato della Santa Sede, firmarono i Patti Lateranensi. L’antica Questione Romana, che andava avanti dalla Breccia di Porta Pia, fu risolta così grazie alla diplomazia e tanti, tantissimi soldi. Precisamente un miliardo e settecento milioni di Lire, ovvero la cifra che versò come “indennizzo” lo Stato Italiano al Papa. Una somma sbalorditiva per l’epoca che necessitava di un oculato investimento e quell’investimento si chiamava appunto Società Generale Immobiliare.
Attraverso il banchiere Bernardino Nogara il Vaticano investì così gran parte di quel patrimonio iniziando ad acquisire terreni in vista di una futura edificazione dapprima in ogni parte di Roma e poi anche nel resto d’Italia e altrove nei luoghi più esclusivi di tutto il mondo. Ben presto quella cifra iperbolica si  moltiplicherà ulteriormente.
Verso la metà degli anni Cinquanta però il sistema finì al centro di diverse polemiche in Italia, tra tutte la più dura fu senz’altro quella che venne dalle pagine de L’Espresso. A quel punto il Vaticano, su disposizione del Papa, iniziò a dirottare i propri investimenti all’estero e quello che stava portando a termine a Washington era senza dubbio il più ambizioso di tutti.

L’Americans United For Separation of Church and State non accettava che proprio il Pontefice fosse protagonista di quell’operazione immobiliare, che a sentir loro, avrebbe inevitabilmente avuto ricadute politiche se non delle vere e proprie ingerenze che mettevano in dubbio il principio di laicità invocato dalla Costituzione. Le proteste durarono mesi ma l’Immobiliare la spuntò grazie agli appoggi particolarmente influenti su cui poteva contare e che da Roma fecero pressioni per sbloccare la situazione.
Il progetto di Moretti a quel punto era ormai definito in ogni particolare. Cinque edifici alti tredici piani ciascuno disposto a semicerchio cosicché ogni appartamento avrebbe avuto l’affaccio libero verso il Potomac. Fu lo stesso Moretti a definire quelle forme come “liriche quasi costituissero un’antica scenografia”; L’Immobiliare dal canto suo, a quel punto, aveva invece bisogno di un nome, qualcosa di prestigioso che potesse aiutare la vendita degli appartamenti e così vista anche la posizione lungo il fiume, proprio sul margine della città, si decise per una parola facile da memorizzare: Watergate. Avevano ragione, quel nome non sarà dimenticato.

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Quando la polizia allertata da Wills fece irruzione negli uffici del Comitato Elettorale Democratico ospitati all’interno del Watergate sorprese cinque uomini intenti a piazzare delle microspie. Lì per lì sembrò a tutti una cosa da poco ma nei mesi successivi, alimentato dalle inchieste del Washington Post firmate da Woodward e Bernstein, il caso montò fino costringere, nel 1974, il Presidente Nixon alle clamorose dimissioni. Fu dimostrato infatti, “seguendo i soldi” che il mandante dell’operazione di spionaggio ai danni del partito rivale era proprio lui. Un momento epocale per la storia del Paese, un evento di portata tale al punto che il nome di quell’edificio, costruito dall’Immobiliare sulle rive del Potomac, divenne popolarissimo e il suffisso -gate verrà utilizzato, come una sorta di improprio neologismo, per dare un nome a tutti i successivi scandali sino ai nostri giorni.

(articolo scritto con Danela Tanzj e publicato su La Voce di New York )
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